venerdì 17 settembre 2010


Verso le elezioni presidenziali in Colombia: tra sistema politico e relazioni internazionali.

A meno di due settimane dal voto per le elezioni presidenziali in Colombia, gli ultimi sondaggi vedono il candidato sostenuto dal Partito dei Verdi, Antanas Mockus, in vantaggio con uno scarto di 4,5 punti percentuali su Juan Manuel Santos, primo rivale ed erede spirituale del Presidente uscente Alvaro Uribe.1 In ragione della posizione privilegiata che la classe dirigente del paese latinoamericano ha riservato agli Stati Uniti nell’ambito delle relazioni internazionali, il vaglio dei potenziali riflessi sugli equilibri regionali della consultazione elettorale risulta di fondamentale importanza. Il tema della sicurezza in Colombia ha assunto un ruolo primario nella politica interna ed estera: le strategie adottate da Uribe hanno reso dei risultati positivi determinando, tuttavia, gravi violazioni dei diritti umani ed il deterioramento dei rapporti diplomatici con le repubbliche sorelle: Ecuador e Venezuela. A questo punto c’è da chiedersi: L’elettorato colombiano, sente sufficientemente dissipata la minaccia della criminalità che ha dilaniato il paese tanto da aprire le porte ad un Esecutivo di matrice progressista intenzionato ad affiancare al tema della sicurezza il ripristino delle garanzie civili ed il rispetto dell’ordine democratico? Il perpetuarsi di una politica estera colombiana filo-americana può coniugarsi con una politica di sicurezza nazionale in sintonia con i paesi vicini?

La gravità di condizioni nella società colombiana e all’interno delle sue istituzioni politiche si può in buona parte considerare alle origini del doppio mandato dallo stile “forte” del presidente Uribe. Il prezzo pagato dalla democrazia colombiana è alto e si misura, tra l’altro, nell’erosione delle garanzie tipiche dello “stato di diritto” e nelle note dissonanti nelle relazioni con gli Stati confinanti. E’ naturale che tali tematiche continuino a pesare sul dibattito politico che precede l’attribuzione della carica presidenziale per il prossimo quadriennio. Sullo sfondo sono sempre presenti una tendenziale concentrazione della ricchezza, il notevole divario nella qualità della vita tra aree urbane e rurali e la perdurante diffusione di gruppi armati di varia ispirazione ideologica.

Con una certa approssimazione e tralasciando le ovvie sfumature, il panorama politico colombiano è caratterizzato da forze che afferiscono a poli di segno opposto: quello conservatore e quello progressista.2 Questa semplificazione ci permette di guardare in prospettiva e di ipotizzare i possibili effetti sugli equilibri strategici e sulle relazioni nella regione all’indomani delle presidenziali. Un simile approccio è ancora più giustificato alla luce del regime elettorale che, in caso nessuno dei candidati raggiunga una maggioranza assoluta (ed è quanto si profila nel recente sondaggio che abbiamo richiamato in apertura), si dovrà procedere ad una seconda tornata elettorale con conseguente limitazione delle possibilità di voto ai rivali in netto contrasto politico – ideologico.

Le questioni irrisolte

Il fitto intreccio di interessi e relazioni tra soggetti legali e criminali che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni della vita pubblica in Colombia (con una alternarsi di fasi di compenetrazione, conflittualità e/o connivenza tra gli attori) non può ancora ritenersi risolto e coinvolge fenomeni tanto diversi quanto complessi: corruzione di esponenti politici dello Stato centrale e periferico, guerriglia, para–militarismo, narcotraffico e criminalità più o meno organizzata.

Non deve dunque meravigliare che, a distanza di sedici anni, l’eco suscitato dallo scandalo per il finanziamento della campagna elettorale del Presidente Ernesto Samper con fondi provenienti dal narcotraffico sia ancora capace di influenzare il clima politico e di favorire quelle proposte programmatiche che tendono a far leva sulla “moralizzazione” del sistema sociale.

Il bisogno di giustizia del cittadino colombiano, legittimando l’esercizio di un potere esecutivo severo e preponderante nell’ultimo decennio di vita dello Stato, ha determinato indirettamente conseguenze rilevanti sul piano delle relazioni internazionali nell’emisfero americano. Infatti, negli ultimi dieci anni, i vertici politici del Paese hanno dato risposta al dilemma della sicurezza attraverso una alleanza militare con Washington, capace di creare turbolenza nei rapporti con i vicini che, nel frattempo, hanno sperimentato una svolta in senso socialista dai toni decisamente anti-americani. Come si vedrà, la convergenza politica verso interessi U. S. A. è andata ben oltre la lotta al narcotraffico per estendersi fino al campo delle relazioni commerciali regolate da un modello di scambi che presta il fianco a diverse critiche.

Rispetto all’attività terroristica delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias Colombianas) le misure attuate sotto la presidenza Uribem, con il patrocinio U. S. A., sono state giudicate solo parzialmente efficaci e spesso esorbitanti i limiti stessi della legalità.

Quando giudicati positivi, gli esiti delle detenzioni di massa e l’aumento indiscriminato della presenza e delle prerogative dei militari nelle aree considerate a rischio hanno prodotto risultati modesti mentre migliori sono stati i riscontri della dura repressione delle coltivazioni illecite (essenziali fonti di introiti per la guerriglia).3

Neppure la risposta data al para–militarismo è stata decisiva e ciò è particolarmente grave in vista della responsabilità diretta dello Stato nella genesi e sviluppo del fenomeno: in origine la scelta di chiudere un occhio sulle iniziative di autodifesa dei proprietari terrieri, allevatori e commercianti era fondata sulla speranza di bilanciare l’avanzata delle FARC; più tardi si fecero sempre più comuni e tollerati, sia le complicità di tali gruppi con sezioni della milizia ufficiale, sia l’instaurarsi di veri e propri vincoli tra paramilitari, politici, signori del narcotraffico e altre sfere della criminalità organizzata.

La scelta unilaterale di optare per la pacificazione con i paramilitari (peraltro non completamente riuscita), la conseguente impunità e l’insensibilità del Governo verso il dovuto riconoscimento di una riparazione morale e materiale alle vittime civili sono aspetti controversi che hanno suscitato le critiche persino dell’alleato nordamericano.

Gli elementi fin qui analizzati evidenziano l’incapacità dello Stato colombiano a detenere il monopolio della forza ed il controllo del territorio. Tuttavia coloro che hanno pagato il prezzo più alto sono i comuni cittadini (minoranze indigene comprese) specie quelli più deboli e dislocati nei più remoti angoli del paese. Benché siano diminuite, nel 2009 le esecuzioni extragiudiziali di civili sono ancora all’ordine del giorno; le deportazioni all’interno dello Stato sono aumentate e persistono le minacce, violenze e sequestri contro i difensori dei diritti umani ed a danno dei superstiti di ogni forma di abuso.4

Com’è assai noto, oltre al deterioramento della situazione dei diritti umani in Colombia, nella seconda metà dello scorso anno il modello di esecutivo “forte” si è macchiato anche dello scandalo dell’utilizzo improprio dell’apparato di intelligence civile per il controllo di oppositori, attivisti per i diritti civili, giornalisti e magistrati (c. d. scandalo DAS).

A questo punto della trattazione, ferma restando la necessità di approfondire la dimensione estera e le implicazioni geopolitiche di quanto fin qui esposto, è chiaro che sul risultato elettorale avrà un peso determinante la percezione dei rimedi applicati dal governo Uribe alla luce dei “costi” che la comunità ha dovuto sopportare. Fin dove è disponibile la cittadinanza ad offrire nuova legittimazione al legato uribista posto nelle mani di Juan Manuel Santos? E in che misura risulta credibile (e capace di migliorare lo status quo) l’offerta politica di Mockus?

Il conflitto elettorale

Le intenzioni di voto privilegiano la figura carismatica di Mockus, matematico e filosofo già due volte Sindaco di Bogotà ed ex presidente dell’ateneo capitolino, che presenta una piattaforma programmatica assai innovativa, specie se paragonata con quella presentata dal Partido de Unidad Nacional di Santos.

In funzione della dottrina ambientalista del Partito Verde spiccano il consumo responsabile delle risorse, lo sviluppo delle energie sostenibili senza ovviamente trascurare il tema della legalità ed il perseguimento di una maggiore sicurezza non solo mediante l’appoggio alle forze dell’ordine ma anche tramite il rispetto di figure pubbliche altrettanto importanti ma afferenti ad altri poteri dello Stato. Non mancano poi i dovuti riferimenti al rispetto dei diritti umani ed il rifiuto categorico dell’uso della forza da parte di attori non legittimati. Ma ciò che potrebbe fare la differenza a favore del candidato dei Verdi è il fatto che, pur presentando una agenda progressista, nel capitolo del programma dedicato all’economia non vi sono traccie di contrapposizione ideologica nè di lotte tra classi sociali ma piuttosto la palese intenzione di integrare l’economia colombiana nei mercati internazionali.5 A nostro parere una tale impostazione potrebbe portare nell’orbita di Mockus quote di consenso provenienti dai bacini elettorali tradizionalmente inclini alla conservazione dell’ordine sociale: classi medio-alte ed elites economico-finanziarie.

Nelle relazioni internazionali è ben noto che l’asse Bogotà – Washington ha creato tensioni che non si possono giustificare esclusivamente sulla base delle diversità politiche tra le attuali compagini governative in Ecuador e Venezuela (Correa – Chàvez ), da un lato, e la Colombia filo–americana di Uribe dall’altro.

Infatti, la guerra dura al narcotraffico ha determinato effetti transfrontalieri che hanno contrariato l’Ecuador e che hanno portato la Colombia sull’orlo dell’isolamento diplomatico.

In primo luogo, il risentimento in Ecuador deriva da violazioni più o meno dirette della sovranità nazionale a fronte di attività come l’aspersione con sostanze tossiche di piantagioni di coca in aree di frontiera (con danni all’ambiente, alle risorse idriche e ai cittadini ecuadoriani prossimi al confine), oppure, la ben più clamorosa incursione delle milizie colombiane nel territorio ecuadoriano con l’intenzione (peraltro riuscita) di eliminare un esponente di vertice delle FARC.

Inoltre a contribuire al raggiungimento del più basso livello di simpatia tra le repubbliche sorelle, che pare oggi abbiano in comune poco più dei colori delle loro bandiere, bisogna aggiungere l’accordo per l’utilizzo delle basi militari colombiane da parte degli U. S. A. La risonanza negativa di tale intesa in tutta l’America Latina è assai giustificata in quanto viene vista come l’ennesima proiezione militare degli Stati Uniti sul continente in cui ha esercitato (ed esercita) una influenza egemonica.

Sulla sponda opposta, Colombia e Perù, che intrattengono profondi legami militari ed economici con gli Stati Uniti, hanno negato fermamente che le recenti concessioni militari rappresentino una minaccia alla pace nel continente sud americano. Riteniamo che, come spesso accade in politica internazionale, la posizione intermedia rispetto alla problematica delle basi militari sia quella più accreditata. Paraguay e Cile, guidati dal moderato criticismo del Brasile, hanno spostato il fulcro delle critiche dalla questione strettamente militare verso l’interrogativo pressante su quale sia la linea concreta politica del Presidente Obama verso l’America Latina.6

Se in passato la ferrea volontà dell’Esecutivo colombiano di perseguire il terrorismo a tutti i costi secondo una logica unilaterale e sfruttando il senso di vulnerabilità ampiamente diffuso nella compagine sociale (esprimendo anche una ostilità oltre i confini nazionali), il lieve miglioramento registrato nei rapporti diplomatici tra Colombia e Ecuador nell’ultimo trimestre del 2009 suggerisce che quest’anno tale rapporto potrebbe beneficiare di ulteriori migliorie.7

Contrariamente, il Presidente venezuelano Chàvez ha esplicitato le difficoltà di una piena normalizzazione dei rapporti con la Colombia in caso dovesse essere eletto Santos alla guida del Paese; sottolineando che è stato proprio Santos, in qualità di Ministro della Difesa del Governo Uribe, a guidare il raid anti – FARC in palese violazione della sovranità dell’Ecuador.8

Mentre gli interessi primari degli U. S. A. sembrano fisicamente lontani dal vicinato, il forte contrasto professato con varia intensità dal blocco bolivariano di Chàvez ha dischiuso agli Stati, che in quel blocco non si sono riconosciuti, una via preferenziale nei rapporti bilaterali con Washington. In questo spazio s’inserisce anche il dossier delle relazioni commerciali.

E’ assai probabile che in caso di elezione di un candidato “progressista” questo cerchi di mitigare gli effetti negativi sui settori più deboli della società qualora venga data piena efficacia al Trattato di Libero Commercio siglato l’anno scorso tra Colombia e Stati Uniti, tentando, al contempo, una qualche forma di avvicinamento alla Alleanza Bolivariana per le Americhe ed i Caraibi (ALBA).

Mentre i difensori ad oltranza delle politiche commerciali di libero scambio pongono l’accento sul miglioramento dei parametri economici a fronte dell’abbattimento dei dazi doganali tra paesi e richiamano a tal proposito gli esempi virtuosi delle performance di Cile, Perù ed El Salvador a partire dall’ultima decade del secolo scorso9, riteniamo opportuna una riflessione con puntuale richiamo alle specificità del caso colombiano.

Sulla scia degli effetti prodotti sulle fascie più deboli della società messicana dal NAFTA (North American Free Trade Agreement), sono prevedibili degli effetti ancora peggiori in un paese dove, come s’è delineato in apertura, le popolazioni rurali non hanno adeguato sostentamento. Potranno mai competere i beni agricoli prodotti in Colombia da contadini tecnologicamente non attrezzati con il flusso di prodotti americani provenienti da una economia in cui il settore agricolo è (in deroga assoluta al principio del libero mercato) beneficiario di ingenti sussidi?

Anche quando l’integrazione di due economie mediante l’uso della leva daziaria produce degli effetti di crescita economica, tali indici nulla dicono della distribuzione di beni e servizi e non comportano automaticamente, se non compensati da adeguate politiche sociali, un maggior benessere specie in realtà collettive cosi difficili come quelle dell’America Latina in generale e della Colombia in particolare dove dilagano conflitti, deportazioni e violazioni dei diritti umani. Nelle aree rurali il solo mezzo di sostentamento dei contadini è rappresentato dai frutti della terra, e quindi, un leale trattato di libero scambio dovrebbe contribuire allo sviluppo e compensare i divari anziché esacerbare ineguaglianze e povertà10

Purtroppo sembrerebbe che nel capitolo delle relazioni commerciali gli Stati Uniti, pur avendo a disposizione strumenti per riformulare in senso più equo le relazioni con gli Stati vicini, non abbiano aggiunto una pagina in cinquanta anni. Quando agli inizi degli anni cinquanta la Colombia aveva bisogno di capitali per finanziare lo sviluppo dell’industria pesante, la Banca Internazionale per la Ricostruzione rifiutò il suo appoggio finanziario al progetto e diede ascolto all’amministrazione repubblicana del generale Eisenhower ed al motto ricorrente negli U. S. A. rispetto al tono dei rapporti economici con l’America Latina: “Trade not aid”.11

Tornando al presente, è bene precisare che chiunque sarà il prossimo inquilino della Casa de Nariňo dovrà trasmettere stabilità ai mercati finanziari per evitare la fuga di capitali che potrebbe avere effetti disastrosi su un sistema economico che presenta un tasso di disoccupazione di 11,8 %. Sotto questo profilo viene confermata la percezione che hanno di Antanas Mockus gli ambienti economici; nei due termini da primo cittadino nell’amministrazione di Bogotà, il politico matematico ha dato prova di trasparenza e gli analisti non hanno dubbi che per quanto sia innovatore il programma Verde punto fermo rimane quello della crescita economica.12

Infine, il primato dell’economia e la necessità di mantenere un orizzonte stabile e capace di attrarre capitali esteri ci fa pensare che, a prescindere da chi occuperà la poltrona presidenziale, a medio termine le linee di politica estera si indirizzeranno verso i miglioramenti nei rapporti “condominiali” ed il rispetto di garanzie essenziali: di fronte ai mercati, la Colombia non può rinunciare ai traguardi raggiunti in tema di sicurezza ma, sul prossimo Esecutivo si prospetta la pressione crescente dei movimenti per la tutela dei diritti umani capace di indurre al ripensamento dei metodi adottati anche in vista della riduzione dei fondi erogati da Washington mediante il tanto discusso Plan – Colombia .

D’altra parte, dal declino delle relazioni diplomatiche lungo l’asse che da Quito giunge a Caracas passando per Bogotà sono derivati anche un rallentamento delle relazioni commerciali e la carta dell’oltranzismo giocata nell’era Uribe non sembra possa essere di nuovo messa sul tavolo da gioco senza che si vada incontro a delle conseguenze (che con tutta probabilità andrebbero oltre la reciproca espulsione dei corpi diplomatici) di cui tutti gli attori sono pienamente consapevoli e che in realtà non portano vantaggio alcuno alla regione.

Gli esiti della Conferenza di Washington del 12 – 13 aprile 2010 sulla sicurezza nucleare.

S’è tenuta la scorsa settimana a Washington la Conferenza sulla sicurezza nucleare che ha visto riuniti quarantasette capi di Stato e di governo oltre alle alte rappresentanze dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e dell’Unione Europea. Dando luogo ad un tale evento, con lo scopo dichiarato di mettere in sicurezza tutti i materiali nucleari vulnerabili nel giro di quattro anni, il Presidente Obama ha portato avanti il programma deciso un anno fa a Praga dove ha delineato i punti di un’agenda (nella quale figurano oltre alla sicurezza nucleare anche disarmo e non – proliferazione) in cui si dichiara di tendere ad un mondo libero da armi nucleari.

Come ha affermato lo stesso Obama nell’apertura della seduta plenaria del summit, a due decadi dalla fine della guerra fredda, il rischio di un conflitto nucleare fra nazioni è diminuito ma il rischio di un attacco atomico è aumentato. La minaccia di attacco nucleare a cui s’è cercato di dare una risposta nella capitale americana è reale. Basti pensare che sono almeno diciotto i casi documentati di materiali radioattivi sottratti alla loro legittima destinazione, che c’è un vero mercato nero (così esteso da includere le conoscenze scientifico – tecnologiche che ruotano intorno all’atomo) e che tali attività sono opera di organizzazioni criminali internazionalmente dislocate, capaci di perpetrare atti catastrofici come quelli dell’undici settembre.

Prima di rilevare, in una prospettiva critica, gli esiti della Conferenza di Washington del 12 – 13 aprile scorso, è bene fare cenno a due concetti che sono al centro del dibattito tra gli studiosi e che danno anche un senso della vasta portata e dei numerosi problemi che la comunità internazionale incontra quando si propone di approfondire la materia della sicurezza atomica.

In primo luogo, ad oggi la sicurezza nucleare ha assunto una ampiezza tale da comprendere la prevenzione, il rilevamento e la risposta alle attività di sabotaggio, sottrazione o trasferimento non autorizzato di materiali nucleari e radioattivi. In secondo luogo, il perimetro stesso della locuzione terrorismo nucleare pone un interrogativo assai delicato dal momento che c’è ampio consenso sull’opportunità di perseguire tale fenomeno criminale mediante l’adozione (a livello dei singoli stati) di sanzioni di natura penale. La risposta al quesito la si può trovare nella Convenzione Internazionale per la Repressione degli Atti di Terrorismo Nucleare (2005). Secondo questo documento (dal valore ancora simbolico dato che ancora molti sono gli stati che devono procedere alla ratifica), per terrorismo nucleare si deve intendere, l’illecita detenzione, fabbricazione e impiego (o anche solo minaccia) di impianti, materiali, sostanze e ordigni nucleari e radioattivi al fine di causare danni all’ambiente alle persone e alle cose.

La pluralità degli spazi dischiusi dal tema della sicurezza nucleare e dalle questioni ad essa contigue, danno una idea della portata dell’impresa a cui sono stati chiamati i partecipanti alla Conferenza di Washington, peraltro con la necessità di assicurare un alto ed ampio grado di consenso alle soluzioni accordate.

Così, già alla vigilia della Conferenza affioravano numerosi i punti da trattare: dalla definizione di nuovi standard di sicurezza condivisi alla necessità di sviluppare nuove partnership e di approfondire quelle già esistenti, passando per il perfezionamento degli strumenti giuridici atti a proteggere i materiali sensibili durante tutte le fasi del ciclo nucleare (immagazzinamento, trasporto, utilizzo e deposito delle scorie).

Un primo dato positivo risulta dalla partizione del “prodotto” scaturito dai lavori svolti al summit di Washington per cui troviamo, da una parte, una dichiarazione politica (e relativi principi informatori) in cui vengono cristallizzati l’impegno dei partecipanti a rafforzare la sicurezza nucleare e a combattere il terrorismo nucleare, dall’altra, un vero e proprio work plan, in cui si individuano i passi a seguire per realizzare le finalità prioritarie.

In sintesi, alcuni dei punti politici che indubbiamente spiccano per rilevanza nel Comunicato finale del summit sono i seguenti:

Miglioramento della sicurezza, degli strumenti normativi nazionali e della contabilità dei materiali nucleari con particolare attenzione verso il plutonio e l’uranio altamente arricchito.
Concentrazione fisica degli stock di plutonio ed uranio arricchito e riduzione dell’utilizzo di quest’ultimo materiale nell’industria civile.
Promozione dell’universalità (massimizzazione del numero di stati firmatari) dei trattati internazionali essenziali in tema di sicurezza e terrorismo nucleare.
Riconoscimento della necessità di accrescere le risorse necessarie alla Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica al fine di sviluppare le linee guida della sicurezza nucleare e di provvedere all’attività di consulenza utile alla loro implementazione da parte degli stati.
In relazione al punto primo, è doveroso il riferimento alla formidabile opera della AIEA che già da tempo ha formalizzato la stretta correlazione tra aspetti diversi del fenomeno nucleare, e cioè, security, convenzioni di salvaguardia dei materiali fissili ex art. 3 del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) e safety in senso ampio. Ne deriva che aspetti tipici della “non – proliferazione” hanno dei riflessi immediati in tema di sicurezza e l’unica soluzione possibile risiede nella maggiore apertura degli stati al monitoraggio dell’Agenzia.

Si pensi all’esigenza di aumentare il numero di Stati che sottoscrivono (e qui si ragiona in termini di universalità) il c. d. additional protocol, ossia quel tipo di convenzione che potenzia i poteri ispettivi in capo alla AIEA rispetto ad impianti e giacenze radioattive presenti nel territorio di singoli stati.

Purtroppo, l’interdipendenza tra safety e security non è stata esplicitamente riconosciuta a Washington. Probabilmente tale mancanza è dovuta ad una scelta strategica dell’amministrazione Obama che, nell’esercizio della sua leadership e per garantire una migliore riuscita del vertice ha preferito evitare un argomento così spinoso che sarà comunque inevitabile discutere durante la Conferenza di Revisione del TNP che si terrà il prossimo mese di maggio nella città di New York.

In molti casi, l’ostinazione dei paesi in corso di industrializzazione a non stipulare il protocollo per l’ampliamento dei poteri della AIEA, deriva da un perdurante senso di frustrazione visti gli scarsi progressi che, in quarant’anni di vigenza del TNP, le potenze atomiche hanno fatto ai fini del disarmo nucleare. In altre parole, gli stati che hanno rinunciato ad acquisire ed utilizzare mezzi e tecnologie atomiche a fini militari, si chiedono perché mai dovrebbero accettare nuovi ed ulteriori vincoli, capaci di mortificare il loro legittimo impiego del nucleare per scopi pacifici (principio solennemente proclamato dall’articolo 4 del TNP), mentre gli stati che possiedono armi nucleari hanno in sostanza reso lettera morta il loro impegno alla denuclearizzazione in ambito militare.

Per quanto concerne il n. 2 di cui sopra, si tratta del riconoscimento di principi già suggeriti da esperti del settore, motivati sia dai vantaggi derivanti dalla consolidazione degli stock di materiali a rischio nell’ottica di rendere la loro sorveglianza più agevole, che dall’opportunità di disseminare a livello internazionale i progressi tecnologici i quali consentono all’industria energetica nucleare di prescindere dall’uranio arricchito quale input dei processi produttivi.

Ancora più importante, la concreta attuazione del principio di universalità (punto n.3) consentirebbe ad importanti convenzioni internazionali di esperire i loro effetti, e quindi, di migliorare i termini della sicurezza nucleare. Infatti, dal 2005 la Convenzione sulla Protezione Fisica dei Materiali Nucleari (CPFMN) è stata arricchita da un emendamento che, ampliandone l’ambito di applicazione, ha introdotto (oltre alle originarie misure per assicurare l’integrità di uranio e plutonio nelle delicate fasi del trasporto internazionale) meccanismi che asseverano la tutela dei materiali a rischio anche nelle fasi di gestione espletate a livello nazionale.

Ci auspichiamo che l’esito del summit di Washington porti concretamente gli Stati ad investire tutto il loro “capitale diplomatico” al fine di persuadere quell’ampia porzione della comunità internazionale a ratificare gli strumenti pattizi la cui efficacia è ancora sospesa (si consideri che l’emendamento di cui sopra è stato ad oggi ratificato da soli 34 stati e che purtroppo assistiamo ai consueti ritardi nel recepimento a livello delle singole nazioni).

Prima di procedere con l’analisi dei principi sopra accennati, è bene precisare il corretto richiamo effettuato nella capitale nord americana al tema dell’effettività delle norme, per cui, ad un’ampia accettazione internazionale dovranno seguire atti concreti di implementazione sul piano nazionale (nella forma di atti legislativi ed amministrativi di attuazione). Coerentemente a questa esigenza, troviamo tra i punti del work plan i riferimenti all’implementazione, non solo dei trattati internazionali, ma anche delle linee guida sulla sicurezza messe a punto in seno alla AIEA.

Il punto n. 4 del Comunicato coglie in pieno un argomento centrale della prevenzione di atti terroristici a sfondo nucleare: il ruolo della AIEA ed il problema dei mezzi messi a disposizione di quest’importante organismo internazionale per lo svolgimento delle sue attribuzioni.

Negli ultimi anni la AIEA ha visto aumentare i propri compiti per qualità e portata, particolarmente nell’ambito dell’assistenza tecnica e legislativa offerta ai singoli stati (che ad essa si rivolgono su base prettamente volontaria) per la corretta implementazione delle misure di sicurezza nucleare. Tanta è la rilevanza assunta dal tema a livello AIEA che, a partire dal 2002, essa ha trasformato un semplice ufficio in dipartimento con conseguente attribuzione di nuovi programmi e competenze.

L’invito formulato a considerare i mezzi necessari alle attività della AIEA è assai opportuno alla luce della natura puramente volontaria dei contributi finanziari effettuati dagli Stati membri in favore del Fondo per la Sicurezza Nucleare. Possiamo dunque prevedere (senza azzardare sui risultati) un ritorno, in seno alle dinamiche istituzionali dell’Agenzia, del dibattito sulla necessità di assicurare un budget sufficiente, stabile e prevedibile al dipartimento sicurezza. Una maggiore certezza di risorse operative per l’Agenzia sembra a nostro avviso ineludibile in un’era in cui il mutamento climatico ed i costi crescenti dei combustibili fossili stanno facendo rinascere l’interesse verso l’utilizzo del nucleare a fini civili.

Coerentemente con i principi brevemente commentati, il work plan fissa come passaggi obbligati per una ridefinizione dell’architettura della sicurezza nucleare globale, la trasformazione degli impianti civili che utilizzano uranio altamente arricchito in impianti alimentati da materiali non adoperabili a fini bellici, oltre ad un maggiore impegno nella ricerca di nuovi combustibili, metodi di rilevazione e tecniche forensi idonee a garantire una risposta tempestiva ad ogni tentativo di sabotaggio.

La Conferenza del 12 – 13 aprile non s’è limitata a dichiarare obiettivi condivisi e a formulare alcuni strumenti per il loro raggiungimento, ma ha inoltre risolto positivamente il caso concreto dell’Ucraina che, in nome della sicurezza collettiva, ha rinunciato a quasi 90 chili tra uranio arricchito e plutonio che saranno messi al riparo da ogni minaccia in territorio russo (grazie anche al finanziamento degli Stati Uniti). Analogamente, Messico e Canada lavoreranno di concerto con gli U. S. A. per la progressiva diminuzione dei loro stock di uranio altamente arricchito che saranno “diluiti” e consumati in centrali nord americane tecnicamente pronte all’utilizzo di questo tipo di combustibile.

Come anticipato nell’introduzione, il termine ultimo per la messa in sicurezza dei materiali radioattivi a rischio è il 2014, tuttavia, ad esso i partecipanti alla Conferenza hanno opportunamente affiancato un termine intermedio di verifica fissato per il 2012, anno in cui l’incontro si terrà nella Corea del Sud (il luogo sembra tutt’altro che casuale visto il record negativo che la vicina Corea del Nord vanta in termini di proliferazione nucleare) dove si discuterà dell’efficacia delle iniziative messe in atto (censimento dei materiali radioattivi, ratifica dei trattati, adozione di misure attuative, nuove meccanismi multilaterali contro il terrorismo, ruolo AIEA, supporto alle relative risoluzioni ONU, ecc..) e delle necessarie migliorie.

Infine, non è mancato tra gli osservatori, chi ha visto una celata provocazione da parte dell’Amministrazione Obama; infatti, nella guida del vertice essa è riuscita a coinvolgere numerosi paesi islamici, arabi e del sud est asiatico (Pakistan compreso) isolando Teheran, quasi a voler dimostrare che le resistenze dello Stato persiano contro le direttive internazionali e contro la stessa attività della AIEA, non pagano e piuttosto tendono ad ostacolare le concrete aspirazioni iraniane ad ergersi a nazione leader dello scenario regionale di riferimento.

Nel complesso, l’assemblea di Washington va giudicata positivamente dal momento che sembra aver sufficientemente coniugato tendenze contrapposte nell’ambito della sicurezza dei materiali radioattivi: da un lato, quella di enfatizzare il ruolo di istituzioni funzionali nel quadro di trattati multilaterali legalmente vincolanti, efficaci ed operativi, dall’altro, quella di non forzare i tempi e mantenere spazi di manovra per la tutela di interessi nazionali (confidenzialità dei programmi nucleari, libertà di transito nei mari e nei cieli) la cui mancanza ha spesso finito per inibire la partecipazione attiva di molte nazioni ai processi per la sicurezza nucleare e la lotta al terrorismo.

Comunque sia, la prospettiva per confrontarsi con questa rinnovata sensibilità della comunità internazionale verso la minaccia in chiave atomica posta da attori non statali, non può prescindere dalle dinamiche che caratterizzano il presente scenario globale. Mentre nel superato contesto bipolare le questioni della sicurezza globale generale, e nucleare in particolare, erano risolte entro lo schema di un mondo diviso in due, attualmente, l’aggregazione di consenso intorno alle norme ed ai nuovi rapporti di forza si sostanzia in processi lenti e complessi alimentati dalle crescenti spinte centrifughe del multipolarismo.

La curiosa vicenda internazionale delle Malvine.
Nelle settimane a venire imprese concessionarie del Regno Unito procederanno alla trivellazione, a fini di sfruttamento, della piattaforma territoriale che circonda l’arcipelago delle isole Malvine. Tali attività, precedute da anni di ricerca ed esplorazione, sono ora oggetto di aspre denunce da parte della Sig.ra Kirchner, presidente della Repubblica Argentina, e riaccendono una disputa che affonda le sue radici nella prima metà del XIX secolo. La memoria nazionale si sa, è in grado di superare le divisioni politiche ed ideologiche. Per alcuni, sarebbe questa la chiave di interpretazione delle pretese di Buenos Aires che saltano fuori, con rinnovato impeto, in un momento di netta difficoltà dell’esecutivo, su cui si riversano le rivendicazioni di diversi settori della società civile argentina. Tuttavia, osservando da vicino la posizione del Regno Unito, che nega l’esistenza di qualsiasi disputa di sovranità nell’Atlantico Meridionale, ci accorgiamo che Londra non dà l’esempio migliore sul come ci si relaziona a livello internazionale.

In quasi due secoli, Argentina e Regno Unito hanno tirato in ballo, a sostegno dei propri interessi nel sud dell’Atlantico, numerosi argomenti che spaziano da riferimenti storici circa la scoperta e occupazione delle isole Malvine fino alle più articolate tesi di diritto internazionale.

Fino al 1811, anno in cui si moltiplicarono i fermenti indipendentisti che portarono alla nascita di nuovi Stati in tutta l’America latina, la monarchia spagnola esercitò una presa abbastanza salda sulle isole attraverso il succedersi di una trentina di governatori.

Subito dopo, nei primissimi atti amministrativi e lungo gli anni venti dell’Ottocento, le Provincias Unidas del Rio de la Plata, entità embrionale del futuro Stato argentino, hanno considerato le isole Malvine quale parte integrante del loro territorio, ereditato dalla Spagna in base al principio di diritto internazionale sintetizzato dalla formula latina uti possidetis iuris.

A fronte di questi gesti inequivoci di sovranità, la risposta della Gran Bretagna, che da tempo nutriva l’interesse a stabilire un avamposto strategico di fronte allo stretto di Magellano, non si fece attendere: nel 1833, con un atto di forza in tempo di pace, espelleva le autorità e popolazioni argentine per procedere poi, nel 1841, alla formale colonizzazione delle isole.

In tempi a noi più vicini e nel quadro dell’ordine mondiale scaturito dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, le proteste argentine, mai cessate dai tempi dell’espropriazione, sono state promosse in seno a diversi organismi regionali ed internazionali, primo fra tutti l’Organizzazione delle Nazioni Unite.

A tale proposito, la Risoluzione dell’Assemblea Generale ONU 2065 del 1965 inquadra con un certo grado di approssimazione i termini della controversia. Tale documento, risultato di una delicata opera di mediazione del Comitato Speciale sulla Decolonizzazione, e primo di una serie di atti sul caso delle Malvine, definiva formalmente l’esistenza di una disputa tra i governi dell’Argentina e del Regno Unito, concernente la sovranità sulle isole Malvine.

La risoluzione chiudeva, estendendo l’invito ai governi a negoziare senza ritardi, una soluzione pacifica della controversia che tenesse conto delle regole e obiettivi della Carta delle Nazioni Unite, della risoluzione 1514 del 1960 sulla fine del colonialismo e, infine, degli interessi della popolazione delle isole contese.

I numerosi appelli della comunità internazionale non hanno sortito effetto alcuno su Londra che ancora oggi, come in passato, afferma categoricamente l’assenza di qualsiasi dubbio circa la sovranità sulle isole “Falkland” e rifiuta qualsiasi ipotesi di negoziato.

È noto che le risoluzioni dell’Assemblea Generale ONU, salvo alcune eccezioni che non fanno al caso nostro, non hanno valore cogente, pertanto non vincolano i destinatari a compiere (oppure ad astenersi da) comportamenti precisi.

Ne deriva che, sebbene la renitenza del Regno Unito non metta in discussione l’autorità dell’istituzione internazionale, non c’è dubbio che l’autorevolezza e la credibilità dell’Assemblea e dell’ordine internazionale ne risultano indebolite a fronte del disconoscimento assoluto delle ragioni della controparte.

Nella primavera del 1982 le frizioni tra i due paesi sfociarono nell’episodio bellico, tanto breve quanto cruento, che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di molti, forse più di quanto abbiano fatto le contese diplomatiche che l’hanno preceduto e seguito, senza peraltro cambiare la situazione di fatto.

Nel ripensare alle cause del riaffiorare del contenzioso non si dovrebbero trascurare le implicazioni che tali dispute, e le guerre che ne derivano, possono giocare nella proiezione del prestigio degli Stati, sia nei confronti del proprio popolo sia rispetto agli altri attori della scena globale.

Molte pagine di letteratura sono accomunate dall’idea che l’avventura militare che portò l’Argentina del generale Galtieri ad invadere l’arcipelago sia da intendere come mezzo per sviare l’attenzione pubblica dalla grave situazione socio-economica che viveva in quegli anni il paese sudamericano. Tanto era precaria la situazione del governo militare che, alla fine della guerra anglo-argentina, nel giugno del 1982, Galtieri fu costretto a dimettersi e la società argentina iniziò a muovere i primi passi verso il ripristino della democrazia.

Dall’altra parte dell’Atlantico il governo della Lady di Ferro, Margaret Thatcher, avrebbe approfittato della guerra della Malvine per ridare lustro internazionale alla Corona, dimostrandone la capacità di dare una risposta veloce e risolutiva all’aggressione subita nei domini d’oltreoceano, dopo decenni di lento declino avviatosi con la Prima Guerra Mondiale e culminato con la crisi di Suez del 1956.

Tale chiave di lettura potrebbe essere utile anche oggi. Per capire il revival delle Malvine è stata insinuata l’ipotesi di un uso strumentale del contenzioso da parte della Kirchner: infatti, sul fronte interno il governo è sotto assedio da parte delle sempre più potenti lobby agricole e degli scioperi anti-governativi: giocando la carta nazional-popolare delle Malvine abbasserebbe le tensioni interne, dilatando i tempi di azione.

Tornando alla querelle di queste ultime settimane, Buenos Aires sta chiedendo un allineamento alle raccomandazioni dell’ONU, e diffida Londra dall’intraprendere atti unilaterali dissonanti con una serie di intese provvisorie adottate tra i due paesi nell’ultima decade del secolo scorso. Tali intese vanno dalle misure per la costruzione di fiducia reciproca in ambito militare alle condizioni dei trasporti aerei e marittimi, passando per la salvaguardia delle risorse ittiche e l’esplorazione e lo sfruttamento di idrocarburi. Questi punti sono di fondamentale importanza perché su di essi si era riusciti ad aggregare un minimo di consenso tra i litiganti in un quadro di dialogo bilaterale.

Mentre il Primo Ministro britannico, Gordon Brown, non intende concedere neppure il beneficio del dubbio sula sovranità delle Malvine, numerosi governi dell’America Latina non hanno esitato a prendere le difese dell’Argentina. Nell’ultimo vertice del Gruppo di Rio il Presidente messicano, Felipe Calderòn, per conto delle trentatre nazioni riunite ha denunciato le azioni britanniche. Nello stesso consesso si è espresso, secondo una logica assai lineare e anche un po’ provocatoria, il presidente brasiliano Lula da Silva che, oltre a dichiararsi solidale con la nazione argentina, si chiedeva quali fossero le ragioni geografiche, politiche ed economiche che giustificano la presenza inglese a poche centinaia di miglia dalla Patagonia.

La risposta concreta data da Buenos Aires alla prospettiva di inizio di attività di perforazione dei fondali per l’estrazione di petrolio da parte delle imprese inglesi è stata l’imposizione dell’obbligo di autorizzazione preventiva a tutte le navi che intendono attraversare le acque territoriali e/o utilizzare i porti argentini per i collegamenti verso le Malvine. Alcuni analisti hanno messo in evidenza la scarsa efficacia di questa forma di ritorsione, dal momento che i materiali utilizzati dalle aziende inglesi provengono dalla Scozia e non transitano per i porti argentini.

La chiusura al dialogo da parte del Regno Unito trova il suo corollario nel richiamo del principio di autodeterminazione dei popoli. Secondo il Sottosegretario agli Affari Esteri, Chris Bryant, gli abitanti delle isole vogliono far parte del Regno Unito ed il governo non deluderà le loro aspettative. Già nel 1983, all’indomani della guerra e per rafforzare i legami con il dominio, il Regno Unito aveva concesso la cittadinanza britannica agli abitanti delle isole.

Ovviamente gli Argentini hanno sempre negato la validità di ogni riferimento alle popolazioni coinvolte, in primo luogo perchè negli atti dell’ONU non si parla della volontà degli abitanti delle Malvine ma dei loro interessi e si dà inoltre ad intendere che le isole sono territorio in attesa di decolonizzazione. In secondo luogo, il principio dell’autodeterminazione dei popoli non sarebbe applicabile in quanto all’origine c’è un atto di coercizione da parte della potenza europea che, occupando arbitrariamente l’arcipelago ed espellendone le popolazioni autoctone, ha leso l’integrità territoriale Argentina.

Per il momento non s’intravedono né una escalation delle tensioni che possa portare ad un nuovo conflitto armato (entrambi i governi hanno esplicitamente escluso l’intenzione di ricorrere all’uso della forza) né dei buoni motivi per cui la Kirchner possa riuscire a cambiare questa curiosa pagina della storia internazionale.

Piuttosto, con un pizzico di crudo realismo si può immaginare che le patriottiche rivendicazioni argentine torneranno prima o poi in letargo, almeno fino a quando un nuovo governo in difficoltà tornerà a sbandierare l’orgoglio nazionale. Nel frattempo è molto probabile che gli Argentini dovranno, nell’inerzia del sistema internazionale, accontentarsi dei compensi derivanti dai diritti di passaggio per le banchine dei loro porti delle risorse estratte dalle vicine “Falkland Islands”.

La Conferenza di Londra sull’Afghanistan: Una nuova e migliore strategia?
Sin dai primi passi nella Casa Bianca il presidente Obama ha posto tra le priorità di politica estera della sua amministrazione la questione afghana ed il necessario cambio di strategia militare nell’approccio alla regione al fine di superare quello che, nel giro di circa dieci anni, s’è trasformato in un pericoloso pantano. A Washington le aspettative sul supporto europeo alle azioni militari nella regione centro asiatica sono sempre state elevate, pertanto, non deve sorprendere che le restrizioni solitamente poste dai governi del Vecchio Continente sulle proprie truppe, per evitare il loro ingaggio in vere e proprie operazioni di combattimento, siano state note dolenti nel concerto transatlantico. Intanto, a circa tre settimane della Conferenza di Londra sul futuro dell’Afghanistan, fa notizia questi giorni la caduta del governo olandese diviso sul voto circa la prosecuzione della partecipazione militare del paese alle operazioni contro i Talebani nella provincia di Uruzgan.

Una certa asimmetria ha caratterizzato l’apporto dei paesi NATO in Afghanistan: fin qui un nocciolo duro di Stati ha contribuito col grosso delle truppe combattenti (Stati Uniti, Regno Unito, Olanda e Canada), mentre il resto dei paesi si sono dedicati più che altro all’assistenza allo sviluppo ed ai peacekeepers.

Il maggior coinvolgimento umano e materiale degli Stati Uniti nel conflitto contro l’insorgenza dei Talebani ha causato una certa “americanizzazione” delle operazioni, ossia un maggior peso di Washington nelle decisioni strategiche. A tal proposito non bisogna dimenticare che, oltre ai soldati coinvolti nella missione ISAF a guida NATO, gli Stati Uniti hanno schierato altre 13,000 unità attive, parte dell’operazione Enduring Freedom, per lo più in prossimità del confine con il Pakistan.

Alla vigilia della Conferenza di Londra del 28 Gennaio scorso, alcuni osservatori hanno evidenziato lo scarso coordinamento degli aiuti portati in Afghanistan e la mancata definizione di parametri condivisi per la valutazione dei risultati raggiunti dalla missione in termini di governo, sicurezza e prestazione economica del paese.

In una certa misura assistiamo al cambiamento di rotta della politica estera nordamericana, che si sposta dallo stile dell’ex presidente George W. Bush, incline alla ricerca di una netta vittoria militare in Afghanistan, all’approccio più moderato dell’Amministrazione Obama che, pur riconoscendo l’importanza dell’elemento militare nella riuscita dell’impresa, fa trasparire delle aperture ad una soluzione di compromesso.

Probabilmente una simile apertura è da attribuire non tanto alla diversa origine politica dell’attuale Presidente, ma piuttosto alla necessità di fare i conti con un’opinione pubblica (e lo stesso si potrebbe dire di quella britannica) sempre più critica verso il mantenimento delle truppe in Afghanistan.

Diversi sono gli esiti della recente conferenza di Londra, a cui hanno partecipato più di settanta paesi oltre ai rappresentanti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e di numerose organizzazioni non governative.

Tra dichiarazioni di intenti e progetti programmatici, è emersa la volontà di negoziare con l’insorgenza (se esiste o meno una compatta controparte “talebana”, capace di negoziare la fine delle ostilità, è un punto ancora da chiarire). In linea di massima questa nuova attitudine verso i ribelli, accompagnata da un più efficiente sforzo di ricostruzione, dovrebbe aiutare a migliorare le prospettive e la fiducia verso il futuro del paese.

Nella riunione di Londra si è anche stabilito un obiettivo preciso al centro della nuova strategia: portare lo Stato afghano all’autosufficienza, garantendo la sicurezza necessaria al pieno esercizio della sovranità su tutto il territorio. Altrettanta chiarezza è stata fatta circa gli strumenti ed i tempi in funzione di tale meta: sviluppo economico, sicurezza e buon governo dovrebbero permettere, nel giro di circa diciotto mesi, il passaggio di consegne dalla coalizione a guida statunitense al Governo afghano.

Il vertice ha anche assolto la sentita esigenza di rassicurare l’opinione pubblica internazionale circa il maggiore peso del personale civile schierato. In tal senso tutti i dirigenti della compagine transatlantica hanno enfatizzato la designazione di Mark Sedwill alla carica di rappresentante civile della Nato a Kabul.

Agli occhi del primo ministro Gordon Brown il contributo militare deve essere armonizzato con la necessità di sviluppo economico ed il perfezionamento del sistema e delle pratiche di governo. Il rappresentante del Regno Unito ha anche espresso un’opinione favorevole al programma di pacificazione, tendente a risanare il tessuto della società afghana, proposto dal presidente Karzai. Tale programma si articola in una fase di reintegrazione, che si rivolge ai combattenti più giovani e meno indottrinati su cui l’offerta di un’alternativa economica può ancora fare presa, e in una fase di riconciliazione, che mira a coinvolgere i piani alti dell’insorgenza in un delicato processo di negoziazione politica.

Inoltre ha trovato accoglimento l’idea, da tempo ventilata dal Segretario Generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, che incoraggia i governi del Patto Atlantico a concentrare gli sforzi sull’addestramento dei servizi di sicurezza afghani (necessaria premessa al disimpegno delle truppe NATO). Infatti, sono state incrementate le forze militari in Afghanistan di 39.000 unità (per tre quarti contributo USA) che saranno impiegate soprattutto per l’addestramento dei locali.

Nel complesso gli sviluppi della Conferenza possono essere visti positivamente, specie se si vuole dar peso, oltre che ai provvedimenti reali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e diversi creditori hanno accordato allo Stato afghano l’annullamento di debiti ammontanti a 1,6 miliardi di dollari), ai buoni propositi enunciati dal presidente Karzai di combattere la dilagante corruzione.

Se i segnali di apertura verso la negoziazione con i Talebani siano da interpretare come implicito fallimento della strategia fin qui adottata nella campagna d’Afghanistan oppure siano il primo passo di una vera e propria exit strategy, è questione dal peso relativo se si valuta lo scenario da una prospettiva più ampia.

Ciò che conta è che nel disegno “occidentale” di stabilizzazione dell’Afghanistan continua a far difetto la partecipazione di attori regionali il cui contributo sembrerebbe imprescindibile nella definizione di un equilibrio geopolitico di lungo periodo. Persino la più superficiale delle valutazioni suggerisce che l’apporto logistico di Mosca consentirebbe un efficiente passaggio di aiuti umanitari e contingenti militari verso l’Afghanistan.

La flessibilità di Washington nei confronti della questione afghana potrebbe moltiplicare i suoi effetti se si riconoscessero come legittime le pretese degli Stati circostanti. E’ difficile nascondere che, con interessi di varia natura e con un peso politico-militare e geo-strategico ovviamente diverso, Iran, Pakistan, Russia e Cina possono rafforzare oppure far deragliare la politica occidentale in Afghanistan.

In teoria Teheran potrebbe contribuire lottando contro il traffico di narcotici lungo il vasto confine con l’Afghanistan ed offrire supporto logistico attraverso l’apertura dei porti di Chabahar e Konarak.

Nella pratica, i costi politici di un coinvolgimento della Repubblica Islamica sono troppo elevati: da un lato, sull’Amministrazione Obama grava il peso di relazioni diplomatiche colate a picco da quando l’aggressiva dialettica dell’immediato predecessore, sull’onda emotiva dei tragici eventi del 11 settembre, includeva l’Iran nel noto Asse del Male; dall’altro, entrerebbero in gioco le ambizioni nucleari e lo sviluppo del programma missilistico di Teheran su cui la comunità occidentale non sembra voler fare concessioni.

D’altra parte, il contenimento del fondamentalismo islamico non è questione di interesse esclusivo del mondo occidentale: si pensi agli effetti negativi di tale fenomeno sui rapporti tra le minoranze etnico-religiose e le autorità nella remota provincia dello Xinjiang cinese. Analogamente alla luce delle perduranti pretese della comunità cecena musulmana, la Russia sarebbe senz’altro interessata alla costruzione di uno Stato afghano stabile e dalla dirigenza moderata.

È evidente che sulle potenzialità di cooperazione poc’anzi accennate grava tutto il peso di interessi parziali e delle rivalità tra le potenze in campo. Non si può infatti trascurare né il valore dell’Asia Centrale quale fonte di materie prime, risorse minerarie ed energetiche (si consideri a tal riguardo i massicci investimenti cinesi per l’estrazione del rame nell’area di Aynak a soli trenta chilometri da Kabul) né il significato strategico della regione agli occhi degli attori globali desiderosi di assicurarsi il dominio fisico o l’influenza politica in quella porzione del pianeta.

Tale prospettiva ci rende quantomeno consapevoli degli ostacoli frapposti al raggiungimento di una stabilizzazione a lungo termine in Asia Centrale, laddove si voglia isolare la realtà afghana dal contesto che la circonda e dai portatori di interessi che bisognerebbe coinvolgere, anche a costo di dover ridimensionare le proprie aspettative, in cambio dell’appoggio necessario ad un equilibrio più duraturo.