mercoledì 23 giugno 2010

Uno sguardo al lato oscuro dell'economia internazionale: manie speculative, crisi finanziarie e azzardo morale.


Alle origini dell'attuale disordine finanziario globale.

Per capire uno dei lati più oscuri del capitalismo globale, e cioè il verificarsi di crisi economiche originate da scompensi finanziari, occorre fare i conti con alcune importanti pagine di storia economica ed, inoltre, approfondire alcuni concetti e dinamiche strettamente collegate con il funzionamento del mercato internazionale dei capitali.
La complessità della materia rende insufficiente la semplice conoscenza di quei fattori di rischio (individuati dagli economisti), in presenza dei quali aumenta la probabilità di una crisi finanziaria.
Squilibri macroeconomici di varia natura, indebitamento e squilibrio dei conti esteri, lenta crescita economica, inflazione e instabilità politica sono tutti fattori che preludono il crack finanziario di un'economia. Tuttavia diversi possono essere le dinamiche e la concatenazione di questi fattori e, sopratutto, è bene interrogarsi sul ruolo degli Stati rispetto alle possibili scelte di politica economica prima e durante le fasi turbolente.
Nelle pagine a seguire si farà cenno ad un modello astratto utile all'interpretazione delle crisi finanziarie globali per poi passare in rassegna le fasi salienti del caso argentino 2000 – 2002. Lungi dal voler giungere ad una comprensione esaustiva del fenomeno, si vuole qui suggerire una prospettiva critica dell'assetto finanziario globale che poggi su basi economiche.
Sebbene l'economia mondiale abbia sperimentato la mobilità dei capitali, già negli anni che precedono il primo conflitto mondiale, il fenomeno, cosi come lo conosciamo oggi s'è diffuso solo a partire dalla metà degli anni settanta del secolo scorso.
In linea di principio, l'abbassamento delle barriere che ostacolano il flusso dei capitali consente la migrazione di risorse finanziarie da quei paesi che le hanno accumulate verso quelle economie bisognose di finanziare il loro sviluppo economico.
Purtroppo, Il tratto che distingue gli investimenti transnazionali nella moderna economia globale è il fatto che buona parte di questi è altamente volatile e con scadenze a breve termine e tendono, dunque, ad assumere quella natura puramente speculativa che accresce la vulnerabilità del sistema finanziario internazionale.
Secondo alcuni politici ed economisti, gli investimenti speculativi minano alle fondamenta la stabilità dell'economia mondiale ed andrebbero assolutamente regolati.
A livello mondiale, si può affermare che il sistema finanziario del secondo dopoguerra funziono correttamente fino alla decisione (unilaterale ed assai criticata) del Presidente americano Nixon di abbandonare il sistema dei cambi fissi alla base del sistema monetario internazionale. Solo in questo modo gli Stati Uniti potevano continuare a nascondere e finanziare i crescenti costi della già poco popolare guerra in Vietnam senza alzare le tasse ma esercitando delle politiche macroeconomiche inflazionistiche.
Con questa specie di gioco delle tre carte, l'emissione di nuovi dollari (con conseguente svalutazione della valuta americana) da un lato, e la conseguente libertà di tutti gli Stati di manovrare sui tassi di cambio dall'altro, si ponevano le fondamenta del nuovo disordine economico mondiale. Disordine perché nessun sistema di regole fu definito per il funzionamento dei nuovi cambi variabili. Tuttavia, è bene chiarire che l'accelerazione dei movimenti di capitali è stata impulsata almeno da altri due fattori.
In primo luogo, con la crisi petrolifera del 1973 si realizzo quel surplus monetario in capo ai paesi OPEC propensi all'impiego di tali risorse in altre economie che, bisognose di capitali, si sono adoperate per la rimozione delle barriere legali ad ostacolo dei flussi.
In secondo luogo, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso è iniziata la informatizzazione delle procedure finanziarie e la diffusione di strumenti tecnologici che hanno ulteriormente semplificato ed accelerato la movimentazione dei capitali.
E' ora chiaro che, in assenza di qualsivoglia meccanismo regolatorio, le trasformazioni della finanza moderna abbiano portato all'aumento vertiginoso da parte dei banchieri di forme di investimento a breve termine rendendo altamente vulnerabili i debitori (dove per debitori intendiamo intere economie e le loro popolazioni) agli improvvisi cambiamenti nelle preferenze degli investitori.

Capire le crisi finanziarie: il modello di Hyman Minsky.

Sistema Monetario Europeo (1992), Messico (1994) e Asia orientale (1997) sono alcune delle vistose e ricorrenti crisi finanziarie. Sebbene la maggioranza degli economisti abbia minimizzato queste crisi continuando a professare la razionalità intrinseca dei mercati, Minsky ha elaborato una teoria della instabilità finanziaria secondo cui, la genesi e sviluppo delle crisi finanziarie segue dei percorsi riconoscibili che permetterebbero in qualche modo di prevenirle o di attenuarne gli effetti.
Secondo il modello di Minsky, le crisi vengono originate da eventi eccezionali esterni all'economia (shock esogeno) come l'introduzione di una importante novità tecnologica che aumenta le possibilità di profitto in un settore economico.
A seguire, banche, fondi di investimento privati e aziende riversano sul settore in crescita risorse finanziarie e linee di credito che fungono da motore per una ulteriore crescita economica (boom di investimenti). Si attiva cosi un processo cumulativo: investimenti – crescita – investimenti.
Tuttavia gli investimenti assumono scadenze sempre più a breve termine, e le prospettive di alti guadagni aprono la strada alla deriva speculativa. Il gioco è fatto: prima o poi lungo il sentiero speculativo si diffonde la percezione che il mercato abbia raggiunto il suo picco ed il comportamento di pochi investitori, desiderosi di salvaguardare i propri capitali (o di investire in un altro mercato dai rendimenti comparativamente migliori), disinvestono dando il segnale alla “mandria” che si scatenerà nella folle e disperata corsa alla liquidità e ad alienare titoli con conseguente crollo e strangolamento di un intero settore economico divenuto essenziale per quell'economia.
Passatemi la retorica perché ci sta davvero tutta...gli attori di mercato, sono sempre attori razionali?!
Lo schema delineato mette in risalto come la speculazione finanziaria sia un fenomeno gregario che può assumere i tratti della follia collettiva. Comunque non finisce qui, in una prospettiva critica mi sembra opportuno evidenziare possibili comportamenti razionali eticamente assai discutibili.
Sebbene la teoria economica assuma a priori che gli attori di mercato siano attori razionali che agiscono per il soddisfacimento dei propri fini, paradossalmente la razionalità non garantisce che gli operatori economici tengano esclusivamente comportamenti giusti e responsabili.
Mi riferisco al problema dell'azzardo morale, argomento paradossalmente sbandierato da quella maggioranza di economisti favorevoli ad una impostazione liberale e senza restrizioni legali dei mercati finanziari. Questi economisti accomunati dalla fiducia nel mercato, ritengono (e purtroppo non hanno tutti torti) che certe forme di intervento nell'economia (il nodo è proprio quello di trovare le forme per migliorare il funzionamento dei mercati!) finiscano per rendere ancora più incauti e spregiudicati gli investitori internazionali.
Si allude qui agli ambigui effetti dell'attività del Fondo Monetario Internazionale a cui si farà a breve cenno parlando della crisi Argentina di circa dieci anni fa.
L'idea di fondo è che, la presenza di una istituzione che svolge il ruolo di prestatore di ultima istanza per il salvataggio delle nazioni in crisi, abbia incoraggiato, gli Stati ad adottare politiche economiche dissennate e, gli investitori che hanno convogliato i capitali in queste economie a procedere senza una adeguata valutazione del rischio. Le due parti pare tendano ad essere confortate dalla consapevolezza che, in fin dei conti anche se tutto finisce per andare storto interviene il Fondo Monetario Internazionale.
Peraltro, non è da escludere (e questa è una congettura di chi scrive) che la tanto criticata severità del FMI negli interventi di salvataggio (vedi il caso argentino), che impone clausole durissime per l'erogazione dei fondi di salvataggio, abbia un fine “pedagogico” tendente a disciplinare i responsabili di politiche economiche ardite o poco ponderate.
D'altra parte, secondo Milton Friedman, il caso del Messico, salvato dalla crisi scoppiata nel 1994 da un pacchetto di aiuti di 50 miliardi di dollari raccolti da FMI, USA ed altri paesi, rappresenta un caso eclatante di distorsione della regolamentazione del mercato, dato che i fondi finirono direttamente nelle mani di enti stranieri (tra cui molte banche americane) che avevano concesso prestiti dissennati al Messico, mentre l'economia messicana veniva lasciata in condizioni addirittura peggiori di quelle che hanno preceduto il “salvataggio”.
E' vero, i rilievi appena fatti mettono in luce alcune (e non tutte!) delle difficoltà all'implementazione di meccanismi ed istituzioni che possano arginare gli effetti devastanti della finanza globale, tuttavia, alla luce delle ricorrenti crisi e manie speculative finanziarie di cui soffre l'economia mondiale, tali difficoltà non possono assolutamente esimere pensatori, governanti ed economisti dalla responsabilità di escogitare efficaci strumenti di regolazione.

Brevi cenni sulle dinamiche e specificità della crisi argentina del 2000.

Uno degli elementi chiave nella crisi finanziaria Argentina è stata, indubbiamente, la cospicua entità di indebitamento che il paese sudamericano aveva accumulato nei decenni che precedono il collasso economico a cavallo dei due millenni. Le origini di tale debito vanno ricercate a metà degli anni settanta quando, sotto la guida politica del regime militare (1976 – 1983) si registro un balzo del debito estero argentino da circa 9 a 35 miliardi di dollari, con una prevalenza del settore privato rispetto al pubblico nella complessiva composizione dell'entità debitoria. Tale variazione fu in buona parte dettata da politiche di apertura agli investimenti stranieri e passaggio da un sistema cambiario a tassi fissi a quello a tassi variabili.
E' stato opportunamente sottolineato come le elites militari argentine, alla guida del paese fino ai primi anni ottanta, abbiano favorito in quegli anni alleanze con imprese multinazionali ed i titolari dei grandi capitali finanziari favoriti proprio dalla apertura operata dal governo in favore degli investimenti esteri.
Il caso dell'Argentina è perfettamente emblematico di perché sia necessario guardare al passato per capire ciò che viene dopo: s'è vero che lo scoppio definitivo dell'infiammazione purulenta è avvenuto nel 2000 – 2001, con tutte le conseguenze sulla cittadinanza locale, i tessuti finanziari dell'economia Argentina andavano in necrosi già nel 1981.
E' in quell'anno, infatti, che il Governo argentino decise di accollarsi tutto il debito estero accumulato dai settori privati dell'economia dando luogo alla c. d. politica di socializzazione del debito privato. Tale socializzazione voleva essere un modo per rassicurare i paesi e le imprese in posizione di credito rispetto all'Argentina, anche perché, con la socializzazione entra in gioco, in qualità di garante di ultima istanza, il Fondo Monetario Internazionale.
Prima della socializzazione del debito, l'economia Argentina doveva confrontarsi con gli effetti negativi della crescita interna, e cioè, bilancia commerciale in disavanzo per via di un aumento delle importazioni. Il rimedio era quello di adottare delle misure di politica economica che attenuassero la crescita e quindi, il disavanzo.
Dopo la socializzazione del debito, il problema poc'anzi accennato da ciclico divenne permanete: il peso del debito costrinse il Governo (tramite la Banca Centrale) a stampare moneta per far fronte al dissesto delle finanze pubbliche con l'ovvio risultato di far galoppare l'inflazione. Buone notizie? L'inflazione del peso argentino ebbe come effetto una svalutazione del debito estero? Assolutamente no, come abbiamo visto, il debito argentino era espresso in dollari. Con l'intenzione di rompere la spirale inflazione – svalutazione il Governo dell'allora Presidente Menem decise di introdurre la parità tra dollaro e peso argentino, rinunciando cosi al controllo sul tasso di cambio, noto strumento di politica economica.
Ciò che risulta particolarmente grave nelle dinamiche di politica economica che si stanno qui percorrendo e che la socializzazione del debito (provvedimento già grave di per se) ebbe delle conseguenze immediate e sinistre sulle classi medio basse della popolazione poiché s'è tradotta in una contrazione della spesa pubblica per servizi ed il contestuale smantellamento delle reti di sicurezza sociali imposto dall'esigenza di tamponare il moltiplicarsi dei debiti pubblici.
Inoltre, nel 2000, l'erogazione di nuove risorse finanziarie in favore dei forzieri argentini è stata vincolata al rispetto della clausola di privatizzazione. In altre parole, il Fondo Monetario Internazionale ha imposto all'Argentina di impegnarsi a vendere il patrimonio pubblico per fare cassa.
Il culmine di questo processo malevolo, in cui istituzioni finanziarie internazionali, classe dirigenti e grandi interessi economici hanno portato al collasso l'economia Argentina, s'è verificato nel dicembre 2001, quando il Governo finì per mettere mano ai soldi della gente con il congelamento dei depositi bancari scatenando la più che giustificata rabbia popolare.
Questo sommario ripasso dell'esperienza Argentina mette in risalto da subito che, le scelte dei responsabili della politica economica possono aggravare, oppure attenuare, gli effetti sociali delle crisi finanziarie: in Argentina il risanamento dei conti pubblici è passato attraverso una politica di austerità fiscale che ha drammaticamente penalizzato la persona comune, prima nella veste di cittadino, per via della contrazione della spesa pubblica, e poi nella veste di utente bancario titolare di crediti verso il sistema finanziario all'apice della follia con il congelamento dei depositi.

Conclusioni.

Come dimostrato dalla generale crisi globale scoppiata l'autunno scorso e confermato dalla recente crisi greca, il tema degli sconvolgimenti economici causati dalla finanza internazionale è (e continuerà ad essere ancora per parecchio tempo) di indubbia attualità. Considerando che, ogni crisi finanziaria presenta delle peculiarità legate al contesto storico e macroeconomico in cui si sviluppa, risulta impossibile formulare un modello economico “onnicomprensivo” capace di spiegare ogni crisi finanziaria. Tuttavia bisogna riconoscere che lo sforzo di Minsky sembrerebbe particolarmente riuscito e dovrebbe fungere da stimolo ulteriore per rompere con l'inerzia dei più arditi sostenitori del liberismo a tutto campo.
Nel frattempo, a noi gente comune, su cui peraltro ricadono in maniera feroce gli effetti negativi delle manie speculative, il compito di informarci, dibattere e criticare, meglio se in chiave costruttiva, tutto ciò che in questa economia globale decisamente non va.


Per approfondire:

Robert Gilpin, Economia politica globale, Le relazioni economiche internazionali nel XXI secolo, pagg. da 241 a 286, Milano, 2009.

AA. VV., La crisi argentina e il caso parmalat, (a cura di Stefano Lucarelli), 2007 - 2008:
www.unibg.it/dati/persone/2316/1496-La%20crisi%20argentina%20e%20il%20caso%20parmalat%20(a%20cura%20di%20Stefano%20Lucarelli).pdf

lunedì 21 giugno 2010

Chàvez si difende davanti alla BBC...



La Commissione Interamericana per i Diritti Umani?
un ente manipolato che ha appoggiato colpi di stato...
Human Rights Watch e Amnesty International? "mentono"...
Clicca sul titolo e vedi l'intervista direttamente sul sito
della BBC...a voi il giudizio!!!

domenica 13 giugno 2010

La Cina come tassello mancante nel dilemma di sicurezza della penisola nord coreana



A più di mezzo secolo dalla fine della guerra di Corea abbiamo di recente assistito al più grave atto di aggressione militare portato a segno dalla Corea del Nord a danno del vessillo Cheonan e che è costato la vita a quarantasei militari della marina facente capo a Seoul. Quale sarà l’evoluzione dei rapporti internazionali in Asia alla luce delle risposte strategiche e politiche dei principali attori interessati alla sicurezza della regione? Quali saranno gli effetti sul già compromesso processo di denuclearizzazione della penisola?

Nelle scorse settimane l’accertamento della nazionalità del torpedo che ha colpito e affondato il vessillo della marina militare sud coreana lascia davvero pochi dubbi sull’origine di questa aggressione non preceduta, almeno a prima vista, da atti violenti o provocatori contro il regime della Repubblica popolare democratica della Corea del Nord (RPDCN).
Come abbiamo visto, ciò ha innescato una nuova escalation delle tensioni tra tutti gli Stati portatori di interessi nella penisola coreana. Alla aspra risposta degli U. S. A. s'è affiancata la grave decisione della Corea del Sud di sospendere gli scambi economici, gli aiuti umanitari e l’accesso dei mercantili battenti bandiera nord – coreana alle proprie rotte commerciali.
D'altra parte, l'ambivalenza di China e Russia nel trattare la questione nord – coreana , motivate in buona parte dall'esigenza di bilanciare il peso geopolitico nordamericano in estremo oriente, non fa’ altro che avvolgere ancora di piu' nella nebbia i possibili risvolti della vicenda nei mesi a venire. Fermo restando che ora più di prima il processo di riconciliazione tra Seoul e Pyongyang assume le sembianze di un miraggio , sono almeno due i fattori che continuano a fare la differenza nei giochi strategici intorno alla sicurezza in Asia.
In primo luogo, c’è la muraglia che si erge intorno alle decisioni, praticamente imprevedibili, che maturano a nord del 38° parallelo. La scarsa trasparenza e l’opacità della compagine politica guidata da Kim Jong – il, la capacità di sorprendere attraverso comportamenti del tutto repentini e talvolta contraddittori (anche se, secondo alcuni osservatori, solo apparentemente irrazionali) ed il ricorso alla costante retorica belligerante, hanno reso difficile la "gestione" internazionale dell'unico Stato che, essendo in possesso di materiali nucleari utili a fini militari e dei missili capaci di veicolarli, ha unilateralmente revocato la propria adesione al Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP).
In secondo luogo, ogni cambiamento che porti ad una stabilizzazione della penisola coreana, passa attraverso l’impegno e l’azione concreta della Cina, fin qui poco presente e piuttosto riluttante a prendere una posizione ferma e decisiva nei confronti dei capricci della Corea del Nord.
Secondo alcuni studiosi l’inerzia di Pechino è motivata da diversi elementi in gioco. In pratica, rispetto ad un paese completamente isolato, Pechino beneficia del monopolio dei traffici commerciali, energetici e finanziari verso la parte nord della penisola coreana (e viceversa). Inoltre è assai fondato il timore che ogni pressione nei confronti di Pyongyang possa provocare il collasso di un regime storicamente alleato, peraltro con l’inevitabile e temuta conseguenza di una catastrofe umanitaria e relativo flusso di rifugiati verso il territorio cinese.
La auspicata presa di posizione della Cina non deve necessariamente tradursi nella promozione di sanzioni draconiane in seno al Consiglio di Sicurezza ONU, infatti, in un clima in cui si vocifera circa le cattive condizioni di salute di Kim Jong – il, Pechino è l’unico attore capace di influire su una successione che favorisca uno establishment incline ad aprire la strada verso le riforme, magari seguendo proprio il modello cinese, e che migliori le relazioni con lo Stato “gemello” del sud.
Alcuni danno una lettura dell’affondamento della Cheoan che supporta l’intuizione dell’approssimarsi di un passaggio di consegne nelle stanze del potere a Pyongyang. Oltre a configurarsi come gesto dimostrativo contro il Governo conservatore di Seoul (che si è in parte discostato dalla precedente decennale impostazione riconciliatoria nota come Sunshine Policy), l’episodio di aggressione potrebbe essere un gesto teso a conferire legittimazione al successore attraverso un atteggiamento simbolico di sfida che possa essere “somministrato” all’opinione pubblica interna.
Questa interpretazione poggia sui precedenti di natura terroristica che, agli inizi degli anni ottanta, prepararono l’avvicendamento al potere dello stesso Kim Jong – il in luogo del padre Kim il – Sung. Si ricordi in proposito l’orchestrata esplosione del volo 858 della Korean Air nel 1987, oppure, l’assassinio di circa metà dell’esecutivo sud – coreano in visita di Stato in Birmania (1983).
L’aggressione avrebbe dunque lo scopo di sopperire alla carenza della credenziale rivoluzionaria del successore su cui si andrà a creare, attraverso una sapiente e martellante propaganda, l’aurea mitologica del nuovo leader carismatico.
La completa inefficacia delle solite esercitazioni congiunte tra le milizie U. S. A. e della Corea del Sud, impongono di approfondire il ruolo della Cina che sembrerebbe il vero ago della bilancia nella delicata questione coreana.
Aldilà della necessità di mantenere il clichè del grande Stato comunista che protegge il fratello minore in virtù delle affinità ideologiche, la postura di Pechino viene da taluno giustificata per via del mantenimento di una visione di politica internazionale anacronisticamente ancorata alle logiche della Guerra Fredda.
Infatti, mentre è piuttosto improbabile che il traballante regime del nord possa durare a lungo senza che si verifichi al suo interno una qualche forma di evoluzione, ciò che sembra certo è che il futuro è nelle relazioni con Seoul. Ad oggi ammonta a circa 190 miliardi di dollari il giro di affari intrattenuti tra Cina e Corea del Sud, cioè, cento volte superiore a quello tra Cina e Corea del Nord.
Si deve anche considerare che Pyongyang, in quanto fattore destabilizzante in estremo oriente, è di fatto un peso strategico sulle spalle di Pechino (anche se non sappiamo fino a che punto venga cosi percepito dalla classe dirigente del gigante asiatico); all’osservatore attento non sfugge certo la relazione tra le minacce di riarmo del Giappone ed i continui gesti di sfida di Kim Jong – il.
Il generico richiamo dei timonieri cinesi ad un ritorno al dialogo multilaterale dei sei (Russia, Cina, Stati Uniti, Giappone, RPDCN e Corea del Sud) per risolvere l’enigma del programma nucleare nord – coreano, oltre ad essere inefficace sembra piuttosto fuori contesto vista la gravita della situazione.
L’impressione di fondo è che, proprio nel cortile di casa, Pechino non sappia (ed in parte non voglia) assumere quel ruolo di responsabilità e di super potenza globale che la prorompente crescita economica ha contribuito a rafforzare negli ultimi anni.


Riferimenti:

Vladimir Dvorkin, Rising Tension Between North and South Korea:
www.carnegieendowment.org/publications/index.cfm?fa=view&id=40872

Richard N. Haass, How to Handle North Korea:
www.cfr.org/publication/22246/how_to_handle_north_korea.html?breadcrumb=%2Fbios%2F3350%2Frichard_n_haass.

Victor D. Cha, North Korea: Succession Signals:
www.cfr.org/publication/22219/north_korea.html

venerdì 11 giugno 2010

Venezuela: deterioramento dei Diritti Umani nella culla del social-populismo del ventesimo secolo (prima parte).


Il corposo testo della Costituzione Bolivariana, fortemente voluta dal Presidente Hugo Chàvez Frias, ben poco può contro gli abusi perpetrati da organi dello Stato a danno del cittadino venezuelano che osa esternare il proprio malcontento o, ancora peggio, una opinione critica verso il Governo.
Purtroppo, le prodezze del chavismo nel modo di relazionarsi con i cittadini non fanno notizia e da questa parte del globo ci siamo dovuti accontentare delle pittoresche e sporadiche comparse del Presidente nei circuiti dell'informazione internazionale.

Per chi non lo sapesse, la situazione dei Diritti Umani in Venezuela è diventata oggetto d'interesse della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (organo competente per la protezione dei diritti fondamentali della Organizaciòn de Estados Americanos, i cui membri operano secondo criteri di imparzialità ed indipendenza) già dal 2003, anno di pubblicazione del primo report interamente dedicato al contesto e alle innovazioni della Rivoluzione Bolivariana nello stile di fare politica. Purtroppo, già da allora venivano accertate numerose violazioni degli spazi della sfera pubblica e privata, collettiva ed individuale, che sono tradizionalmente garantiti dai regimi Democratici.In questa prima fase, lo smantellamento delle garanzie tipiche dello Stato di Diritto che aprirà progressivamente la strada alla deriva autocratica e plebiscitaria a cui assistiamo in Venezuela, toccava i seguenti punti:
  • Deroghe alle regole Costituzionali per la nomina delle piu' alte cariche del potere Giurisdizionale, teoricamente concepite (nella Costituzione fatta su misura per il Presidente Rivoluzionario)per garantire l'autonomia dal potere Esecutivo e l'esercizio indipendente ed imparziale di tali uffici.
  • Impunità: già all'epoca, il 90% delle indagini relativi a violazioni dei Diritti Umani rimaneva arenata, non superando lo stadio iniziale del procedimento penale.
  • Minaccie, agressioni fisiche e verbali, intimidazioni contro le organizzazioni umanitarie e di tutela dei diritti umani, degli oppositori al Governo anche mediante i c. d. Circoli Bolivariani, gruppi indottrinati e finanziati con fondi dell'erario, fedeli all'Esecutivo ed impegnati contro ogni forma di opposizione.
  • Impiego sproporzionato delle forze militari nella tutela della sicurezza dei cittadini.
    Progressivo deterioro della libertà di pensiero e di espressione.
  • Azioni di Governo tese al soffocamento delle libertà sindacali.
Tali distosioni non dovrebbero sorprendere se si considera che l'esordio, anzi l'irruzione, è proprio il caso di dirlo, in politica dell'Uomo della Provvidenza venezuelano è avvenuta nella forma tragicamente nota alla storia latinoamericana del colpo di Stato con tanto di mimetica ufficiale spesso sfoggiata nell'esercizio delle funzioni presidenziali. L'idea è che, coerentemente con l'azione rivoluzionaria e con la cultura da Caudillo del leader, il Chavismo abbia messo all'ultimo gradino nella propria scala di valori i connotati tipici di una Democrazia: distribuzione Costituzionale del Potere, Legalità e Diritti Fondamentali. Con queste considerazioni non si vuole certo difendere la vecchia classe dirigente, che, nel quadro del sistema democratico sancito dalla Costituzione del 1961, andò progressivamente scollandosi dalla base e si rivelo incapace (o semplicemente disinteressata?) all'attuazione delle riforme sociali necessarie per l'emancipazione dei ceti piu' deboli della società. Come dico spesso, il Chavismo (e le sue innumerevoli distorsioni e contraddizioni) non sono un caso: da buon politico populista (anche se all'epoca lavorava in mimetica) l'attuale Presidente ha saputo cavalcare l'onda del malcontento, della scarsa coesione sociale e dei mali che corrodevano dall'interno il sistema politico venezuelano.Come vedremo in altra occasione e alla luce di questa sintetica premessa "storica", attualmente, a distanza di sette anni dal report a cui s'è qui accennato, la condizione dei Diritti Umani, Civili e Politici in Venezuela è sensibilmente peggiorata.
Per approfondire:


http://www.cidh.org/countryrep/venezuela2003sp/indice.htm


http://www.amnesty.org/es/region/venezuela